La nostra esperienza
The Northern Circuit è uno spettacolare trekking di 3/4 giorni: noi lo abbiamo fatto in soli 2! Voi non fatelo!
Nel nostro itinerario di viaggio avevamo solo due giorni a disposizione, abbiamo calcolato suppergiù quanti chilometri al giorno eravamo in grado di sotterrare all’epoca prima di stremare al suolo inabili e inerti, considerando un po’ le precedenti scampagnate in montagne, e ci siamo detti, “okay ce la facciamo, ma si dai”.
Si tratta infatti di un circuito di 43.1km, abituati a farne al giorno fino ai 26km abbiamo pensato che potessimo farcela. Poca roba per chi è allenato, ma per degli escursionisti amatoriali come noi, è già impegnativo! Eh sì ce l’abbiamo fatta, ma che fatica ragazzi!”Ahahahah” col senno di poi ci siamo fatti delle grasse risate ma lì per lì ci siamo dovuti far forza a vicenda per andare avanti dopo ogni sosta ed evitare di lasciarci morire al suolo e venire divorati in seguito da qualche animale notturno.
È stata una esperienza magnifica, allo stremo delle nostre risorse fisiche e mentali, ma ne riserbiamo un ricordo tra i più belli.
Tra le cose che ci spingeva di più a non mollare, oltre ovviamente alla bellezza del luogo da scoprire, era:
- la fame: volevamo raggiungere la capanna ad un orario decente e “scofanarci” l’impossibile anche perché era il 25 dicembre e volevamo festeggiare il Natale con un buon pasto (ahimè la capanna, o meglio la nostra stoltezza, aveva in serbo per noi un’amara sorpresa!);
- il buio oltre il vulcano: pian piano dicono, il sole ad una certa comincia a calare, e la notte, il buio pesto e il freddo, cominciano a farsi sentire;
- la solitudine: più andavano avanti, più gli avvistamenti di altri esseri umani si facevano radi (e poverina abbiamo lasciato anche indietro un’escursionista più lenta di noi, perché non ne potevamo più di camminare e volevamo raggiungere la capanna al più presto);
- non farci superare dalla ragazza, che comunque ci seguiva a ruota;
- la voglia di toglierci gli scarponi;
- arrivare ad un bagno e ad uno specchio per capire perché avevamo la faccia in fiamme (maledetta dimenticanza della crema solare in montagna!);
- ma soprattutto per il vulcano…
…quasi in cima al vulcano si vedeva un netto sbuffo d’aria calda mortale proveniente nientepopodimeno che dalle viscere della terra e si proiettava fiero verso il cielo: Tongariro trattasi infatti di un vulcano dormiente. Bella notizia, tanto lo sapevamo. A valle prima di salire per l’irta scalinata di pietra vulcanica e sentirci come Frodo e Sam a Mordor ai piedi del monte fato in missione “butta l’anello e scappa”, ci siamo appostati a fare pausa-fiato ad un cartello grande e grosso che riportava allegramente i canali che avrebbe percorso la lava scendendo dal vulcano qualora fosse esploso il cono e gettato il panico a 360 gradi. Lo abbiamo studiato, analizzato e fotografato consapevoli del messaggio “incluso nel prezzo” “prosegui a tuo rischio e pericolo, noi premurosi locali ti abbiamo avvertito”. Metti gli utili consigli “in sacocia” e via. Ma, quando raggiungi la cima, sei stanco morto e capisci che sei solo a metà percorso, capisci anche che il messaggio con le vie di fuga era molto simpatico, ma se le gambe non seguono più quello che ti dice il cervello, c’è poco da fare: aspetti che le grandi aquile vengano a salvare pure te, oltre a Frodo e Sam, dal fiume rosso fuoco lavico. Del resto siamo tutti amici del grande mago noi fan del signore degli anelli in fondo.
Dopo la scarpinata per arrivare alla piana ai piedi del cono del vulcano ci siamo arenati per un’ulteriore sosta e, riprese un po’ le forze, ci siamo domandati dove portava il sentierino che alcuni audaci escursionisti stavano imboccando davanti ai nostri occhi. Wow! In cima al vulcano! Insomma proprio sulla sommità! Ovviamente lo volevamo fare anche noi; quando mai capita di tornare in Nuova Zelanda e rifare quella impegnativa salita fino a lì? Sarebbe stato un peccato rinunciarvi! Forti della nostra piccola siesta stavamo quasi per fregarci con le nostre mani! La salita e la discesa avrebbero richiesto 3 ore di scarpinata supplementare, cosa che noi non ci saremmo mai e poi mai potuti permettere, né per energia, né per ore di sole ancora a disposizione per arrivare alla capanna.
Grazie “au ciel” siamo stati abbastanza arguti da rinunciarvi e violare il nostro codice di condotta di vacanza del “fare tutto quello che puoi senza riposarti mai, perché quando ti ricapita?”. Non ce l’avremmo mai fatta. Avremmo dovuto attendere non solo le aquile, sotto l’effetto di qualche allucinazione per mancanza d’idratazione e zuccheri, ma anche un elicottero di soccorso per riportarci giù.
Abbiamo intelligentemente proseguito il cammino, complimentandoci più volte a vicenda per la saggia scelta, fino a ritrovarci di fronte ad un paesaggio mozzafiato che ha scansato rapidamente il ricordo del cucuzzolo irraggiungibile: un enorme cratere rosso-nero (Red Crater) di recente formazione (2012!) e più a valle due laghetti (Emerald Lakes) di un verde-azzurro che solo la chimica di una zona geotermica del genere può creare! Un vero spettacolo.
Dalla cima del promontorio si intravedevano poi delle piccole formichine colorate dirigersi in più direzioni, a valle un bivio portava infatti verso un altro lago montano oppure in direzione della nostra, (lo avremmo capito solo in seguito), superlontanissima capanna, che pensavamo fosse semplicemente là sotto da qualche parte, dietro ad una curva. Troppo entusiasti di quello spettacolo e ancora allegri per aver raggiunto l’altopiano ci siamo lanciati a capofitto nella discesa, senza più pensare al tragitto restante. Saltavamo come felici stambecchi di montagna giù per la discesa solcando profondamente il terreno sabbioso e polveroso ad ogni tuffo. Percorrevamo così diversi metri di dislivello alla volta in freestyle come sulle piste innevate e velocizzando notevolmente la discesa (alla faccia di quelli che stavano percorrendo il circuito nel senso opposto e che arrancavano in salita facendo un passo in avanti e due in dietro in scivolata).
Dopo diverse ore di cammino, esausti, finalmente arriviamo alla capanna e ci stappiamo l’unica birra che ci siamo portati appresso per non caricarci troppo di pesi (errore da non fare per un’altra volta NB portarne almeno 4).
Dopo esserci ripresi, svuotiamo il sacco per cucinare il nostro piatto bramatissimo all’italiana: pasta e sugo in scatola (che manca tantissimo quando sei all’estero). Andiamo in cucina e chiediamo con il sorriso ebete stampato in faccia: “I’m sorry, where I can find pots to cooking my super spaghetti?” Uno ci ride in faccia: qui ognuno si arrangia con le proprie cose, nella capanna non c’è nulla. WHAT?! E la cosa più triste è che nessuno ci ha prestato nulla!!! Forse perché non c’era acqua calda per lavare piatti e posate, forse per egoismo, fatto sta che ci siamo ritrovati a festeggiare la cena del 25 dicembre con dei biscotti secchi sopravvissuti al viaggio (il nostro pan di via), qualche carota, e grazie “au ciel” abbiamo brindato con la fiaschetta di whisky (medicina per ogni evenienza) che ha contribuito a togliere ogni sofferenza: fame, stanchezza, sgomento e sensazione di bruciore al faccione gonfio per non aver messo la crema. È stato bellissimo comunque!
All’alba dell’indomani, attorno alle 6 abbiamo ripreso il cammino in solitaria, in un paesaggio lunare, terra e rocce sporgenti alla luce delle stelle e della luna luminosa. Incredibile. Personalmente ho solo fatto fatica ad aprire gli occhi una volta sveglia perché gonfi dall’ustione e appiccicaticci da quanta crema solare mi sono spalmata in faccia prima di dormire, riprendere la marcia poi è stato piacevole per sciogliere i muscoli indolenziti.
Il resto del tragitto è stato un rientro al campeggio, luogo di partenza del circuito; un susseguirsi di pianura, discesa e pianura. Un allontanarsi piano piano dal vulcano e dalla sua ombra minacciosa ed allo stesso tempo molto attraente. Unico inconveniente: ad un certo punto, saltata la seconda tappa intermedia, avevamo finito l’acqua. Abbiamo resistito finché abbiamo potuto di fronte alle acque limpide e fresche del ruscello che risalivamo. Sapevamo che in Nuova Zelanda spesso le acque potevano essere contaminate da qualche carcassa di Opossum che veniva uccisa dai veleni che venivano sparsi sulle piante per lo sterminio programmato. Alla fine abbiamo rischiato e a quelle latitudini in effetti l’acqua era incontaminata.
Giunti di ritorno al campeggio, abbiamo finalmente stappato la seconda birra del tour per brindare alla nostra prodezza e allo spettacolo naturale a cui abbiamo assistito per due giorni consecutivi!